page contents

La cucina lucana

La Basilicata (un tempo denominata Lucania) è una terra aspra, dura, ricca di sole: una terra misteriosa dove ancora oggi la vita scorre scandita secondo ritmi antichi e dove si attende sempre la soluzione di molti problemi socio-economici.

La sua  cucina è povera e si avvale soprattutto dei prodotti della terra e delle carni derivanti dagli allevamenti degli ovini (e pertanto anche di latticini) e del maiale, mentre manca quasi ovunque il pesce.

È terra di pastori e di contadini, questa: del resto, sul Tirreno la regione è bagnata dal mare per un tratto di costa brevissimo – pochi chilometri – ma stupendo per le rocce strapiombanti, il mare dal fondo blu e compatto, le insenature aggraziate, i paesini alti sui pendii, i soffici arenili. Il centro più importante di questa costa è Maratea, località turistica sorta quasi dal nulla e diventata celebre in pochi anni.

Per quanto riguarda alimentazione e cucina dobbiamo precisare che il maiale è stato elemento fondamentale dell’alimentazione perché lo si può allevare ovunque e soprattutto perché di esso si utilizza tutto, persino il sangue, col quale si prepara il famoso dolce «sanguinaccio». Una volta l’uccisione dell’animale era regolata, come un vero e proprio rito, da una cerimonia che diventava una specie di festa cruenta, legata a leggende, usanze e tradizioni particolari. Il primo colpo di coltello alla gola della vittima era affidato al capofamiglia. Le interiora erano oggetto di attenzione speciale perché da esse si potevano trarre buoni o cattivi auspici per tutto l’anno.

La festa aveva il suo culmine a tavola, dove quel giorno si imbandiva un pranzo eccezionalmente ricco, così come avveniva nelle ricorrenze religiose e in occasioni di matrimoni e nascite.

Dei vari prodotti che si ricavano dal maiale, il più celebre, fin dai tempi della Roma classica, è la salsiccia. Il nome di lucanica oggi tanto diffuso nel nord Italia nasce con ogni verosimiglianza proprio in questa terra mediato dalla denominazione Lucania. La prova è data da una delle molte eruditissime opere di Marco Terenzio Marrone, che ne descrisse le caratteristiche aggiungendo che “i nostri soldati”, cioè i soldati di Roma, “hanno appreso dai lucani il modo di prepararla”. Non si trattava però di quella salsiccia lunga e sottile che con lo stesso nome si produce oggi in vari luoghi dell’Italia Settentrionale, ma di una generica salsiccia molto aromatizzata, simile a quella di cui Apicio fornì la ricetta: “trita pepe, comino, peverella, ruta, prezzemolo, spezie dolci, coccole di lauro e mescola poi il tutto insieme a salsa di Apicio, sale, molto grasso e semi di finocchio: insaccalo in un budello lungo e sospendilo al fumo…”.

La lucanica, dunque, aromatizzata con pepe nero e peperoncino, dal gusto deciso e aggressivo, si mangia fresca, arrostita o fritta, oppure la si fa seccare e affumicare, o ancora la si mette sott’olio per conservarla.

Il maiale lucano è in genere magro, anzi magrissimo, perché pascola sulle montagne insieme a pecore e agnelli: se ne ricava un prosciutto di consistenza asciutta e nervosa, magnificamente saporito e piccante, salsicce a pasta finemente macinata, soppressate, capocolli e il tipico «pezzente», detto così perché era il salame dei più poveri: composto dagli scarti della macellazione (polmone, fegato, nervi), che vengono tritati minutamente, è aromatizzato con dose generose di pepe e di aglio. La carne di manzo e di vitello manca nella  cucina tradizionale ed è tuttora piuttosto scarsa; si sostituisce perciò con quella di pecora, agnello, montone e anche (dopo trattamento particolare) di capra. Una ricetta antica per agnello e castrato è la «pigneti»: i pezzi di carne, insieme a patate, pomodoro, cipolla, peperoncino, formaggio pecorino, salame sbriciolato vengono messi in un’anfora di terracotta che viene chiusa e sigillata con la creta e poi messa in forno caldissimo: il calore viene via via diminuito fino alla completa cottura. Ma degli ovini si mangiano – qui come in tutto il Sud – soprattutto le interiora: si chiamano in Lucania «gnumariedd» come in Puglia e sono arrotolate negli intestini e nella rete dell’animale. La cottura di preferenza è allo spiedo o alla brace: è cibo rude, robusto, pieno di carattere.

Altro alimento fondamentale nella gastronomia lucana è il pane. Esistono, nella tradizione dei fornai lucani, alcune preparazioni a base di farina di grano tenero. È il caso, per esempio, delle cosiddette «friselle» o «frisedde», ma la semola di grano duro è la base pressoché assoluta di tutte le preparazioni in materia sia di pane sia di pasta. La grande maggioranza dei primi piatti della cucina regionale ha come protagonista questo antichissimo cereale, che qui si coltiva in abbondanza dai tempi più lontani.

Le «friselle» sono fette di pane composte di farina di tipo “0”, lievito, sale e acqua, sottoposte a un processo di biscottatura in forno: vengono usate, imbevute di acqua e aceto, come base di ricche insalate estive con pomodori, cipolle e altri ortaggi irrorati con l’olio della regione, o ricevono sul fondo del piatto una zuppa di verdure, un minestrone o altre preparazioni similari. Sono da ricordare anche le «scricchiarelle», di piccolo formato (quattro centimetri per quattro), nella cui pasta entrano, con la farina e il lievito, piccole quantità d’olio: il loro requisito è di essere croccanti.

Ricordiamo inoltre il pane di Matera che, con quello di Altamura, è il pane più straordinario che si produca nel Meridione italiano. È fatto di sola semola, in forme di grandi dimensioni, in grado di mantenersi morbido e saporito per alcuni giorni. Era tradizione, un tempo, che ogni massaia preparasse in casa la propria forma di pane e la portasse poi a cuocere dal fornaio. Per riconoscerla, veniva impresso sulla pasta un contrassegno distintivo, solitamente realizzato in legno scolpito con i simboli o le iniziali della famiglia. Tali “timbri da pane” sono ormai quasi scomparsi dall’uso comune ed è più facile trovarli nei musei dedicati alla civiltà contadina.

Nella versione originale il pane di Matera è cotto in forno di pietra con legna di quercia. Le forme raggiungono e a volte superano i cinque chilogrammi di peso.

Presenza immancabile della tavola lucana è il peperoncino, che assume nomi maliziosi come «frangisello», «cerasella», «pupon», «diavolicchio». Viene usato in dosi massicce, così da risultare – specialmente a palati non avvezzi – fin troppo aggressivo e da sovrastare qualunque altro sapore. Ma perché si consuma in dosi così abbondanti questo vivificante prodotto della terra e del sole? Un proverbio locale dice: «lu paprini e lu pupon ie’ lu pranz r’ lu cafun», che vuol dire:«il peperone dolce e quello piccante sono il pranzo del contadino». Il quale, bisogna dirlo, non ha molto di più – dalla natura della sua terra – da mettere in tavola. Una volta, per combattere malattie come la malaria, tutt’altro che infrequenti, il peperoncino si mangiava abitualmente e l’uso è rimasto. Bisogna sottolineare poi che il peperoncino dà un sapore forte e deciso a qualunque piatto, anche il più scipito, e chi si abitua a sapori vigorosi non si accontenta più di quelli più delicati. Infine, c’è un altro proverbio lucano secondo il quale l’uomo deve essere «bue di giorno, toro di notte»: evidentemente, il peperoncino era ritenuto un … valido aiuto nelle ore notturne e così il «diavolicchio» è ritenuto il re di questa tavola umile e insieme infuocata. Lo si ritrova, con semi di finocchio, sale e grasso di maiale nella «sugna piccante», un condimento caratteristico, molto diffuso, che si conserva in vasi di vetro e si mangia anche come accompagnamento del pane casereccio. Un tempo era cibo quotidiano dei pastori: oggi l’uso non è tramontato.

Siamo nel Sud e la pasta fatta a mano è d’obbligo. «Strascinari», orecchiette, lasagne, e le cosiddette «manate» sono le più caratteristiche. Si preparano con tecniche antiche e l’uso di speciali arnesi come le “cavarole”, nel caso degli «strascinari», che sono piccoli taglieri in legno zigrinati, fabbricati dai pastori durante le lunghe ore di solitudine nei pascoli.

Il «minuich» è uno degli esempi più antichi di pasta. L’impasto, di farina di semola e acqua bollente, si taglia a pezzetti che vengono avvolti attorno a un bastoncino di saggina o a un apposito strumento a sezione quadrata. Con le dita si spiana la pasta fino a ottenere corti spaghettini bucati che devono asciugare. Vengono conditi con salsa di pomodoro, cime di rapa lessate e pecorino grattugiato.

Anche le «lagane» sono un’antichissima forma di pasta casalinga che ha mantenuto nel nome il suo legame con il tempo più lontano. Lagane erano infatti chiamate nel mondo greco e latino le lasagne ed esistono in proposito abbondanti citazioni di autori classici. La preparazione base della pasta si avvale esclusivamente di semola di grano duro, acqua e sale. Tirata la sfoglia si tagliano le lagane nel formato che si preferisce, oppure si ottengono rettangoli piuttosto stretti che vengono avvolti attorno a un bastoncino sottile di legno o a un filo di ferro. Lasciati seccare all’aria si trasformano così in «minuiddi», una sorta di rudimentali pennette. La caratteristica di questo tipo di pasta è che, una volta cotta e scolata, mantiene perfettamente la sua consistenza.

Il condimento più usato per la pastasciutta è il ragù con gli «’ntruppicc» (intoppi), cioè pezzetti di carne ovina o anche di vitello tagliata col coltello, mai tritata. Sopra il sugo si mette il «forte», cioè il solito peperoncino fritto nell’olio, infine si spolvera con formaggio pecorino o «ricotta forte» prima di servire, odorosa e vivida, la robusta pastasciutta. La ricotta forte è una specialità della cucina di Matera che si ritrova anche in Puglia: la ricotta di latte di pecora viene manipolata una volta al giorno per almeno trenta giorni aggiungendo via via piccole quantità di sale, in modo che diventi sempre più piccante. Quando è pronta, si spalma sul pane o si usa per condire pizze, focacce, zuppe.

Tra i dolci, più tradizionale è la «scarcedda», tipica del periodo pasquale: è a base di pasta frolla farcita di ricotta e contiene al suo interno, nascosto nel ripieno, un uovo sodo sgusciato. Chi trova nella sua fetta di «scarcedda» l’uovo (o un pezzo d’uovo) avrà un anno fortunato.

Questa regione ha sempre praticato l’arte di conservare gli alimenti. Un’arte connessa alla necessità: le vie rare e impervie limitavano gravemente la possibilità di approvvigionarsi, le asperità climatiche inducevano a raccogliere provviste a lungo termine, quante ne servivano per superare l’inverno. Dove e quando era possibile la dispensa si riempiva di salumi, prosciutti, soppressate e salsicce, oltre che di formaggi stagionati di produzione domestica. L’autoconsumo era il modo di vivere di una società umile e autarchica, sostanzialmente esclusa dai traffici dei mercanti e da ogni speranza di progredire con il commercio.

Povera e chiusa quanto si vuole, la società contadina ha lasciato alle generazioni successive un patrimonio di grande entità, fatto di ammaestramenti antichi, di ricette tuttora in uso, di abitudini culinarie legate alle più antiche e tradizionali credenze. Certamente la mancanza di corti e dei relativi banchetti affidati ai grandi cuochi ha ridotto il panorama dell’arte della cucina, così come la povertà ha mantenuto vivo il recupero di tutto ciò che viene offerto dalla locale produzione

 

2 commenti

  1. Love the rustic cooking

  2. Informazioni di grande interesse .

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.